UN DOCUMENTO POLITICO, TEORIA E PRATICA-Parte 4

ctgIL NOSTRO INTERVENTO NEI QUARTIERI- Cosa vogliamo fare

Il nostro intervento- S.Eusebio e la città, la città e S.Eusebio

Il nostro intervento si concentra nel quartiere S.Eusebio, perchè è quello in cui siamo cresciuti e in cui in parte viviamo, perchè è quello dove riconosciamo molte delle contraddizioni che in questa fase è indispensabile raccogliere in un’ottica di militanza rivoluzionaria.

Mutuando la parola d’ordine “riprendiamoci la città”, si potrebbe dire “riprendiamoci i quartieri”, riconsegniamoli ai suoi abitanti, che possano decidere della loro vita e del loro futuro. Un discorso, come il nostro, sull’autogestione e le autonomie non può che vedere nei luoghi di massima divaricazione fra i “bisogni” e “risposte istituzionali” il luogo naturale in cui militare. E concepire che da qui, e solo da qui, può partire il movimento di protagonismo popolare che contagi anche il “centro”. Appunto, “riprendiamoci la città”.

Non è il nostro il caso di chi declassa il “problema del lavoro” ad affare secondario. Siamo anzi convinti che il nodo cruciale sia oggi più che mai il sistema produttivo, la crescente precarizzazione, la disoccupazione, generale e giovanile. Non possiamo però al tempo stesso negare che sia piuttosto problematico intervenire nei luoghi di lavoro (propri ed altrui) a causa del regime di perdita di garanzie e tutela in cui ci troviamo. Inolte pensiamo la lotta nei quartieri come la stessa lotta in luoghi diversi ma per gli stessi obiettivi, e lavoriamo per saldare i due “fronti” ogniqualvolta se ne presenti la possibilità. Ci dedichiamo pertanto alle lotte che sentiamo più “vicine” e che reputiamo efficaci, intendendole secondo una visione organica della conflittualità sociale.

Seguiamo il percorso della lotta per il diritto alla casa, in forme autorganizzate ed emancipatorie tramite il “Movimento Casa e Territorio”. Occupiamo il nostro posto al “centro di cultura popolare”, rivolgendoci agli adolescenti. Lavoriamo alla sedimentazione di processi di autonomia concettuale e materiale, collettivi, autodiretti. Affrontiamo assieme a loro l’ostacolo, realissimo, del raggiugimento del diploma, costruiamo percorsi di emancipazione individuale e di gruppo che a partire dall’identificazione del bisogno sappiano individuare le motivazioni, gli ostacoli al suo soddisfacimento ed una via d’uscita collettiva, fatta di azioni. Azioni solidali fra simili, e per questo di classe.

Nell’entrare in quotidiano contatto con le contraddizioni, quelle in carne e ossa, ci scontriamo per fortuna con la difficoltà di assegnare un significato immediato a categorie elaborate “astrattamente”.

Intanto il tema, più volte ripetuto, dei “bisogni” degli strati più bassi della popolazione. Chi decide quali sono? Noi dall’esterno, secondo una prospettiva analitica spesso estranea al soggetto/oggetto dell’intervento?

L’altro grande tema è “la classe sociale” di appartenenza, ovvero il mancato “autoriconoscimento”. Non serve rammentare il proletario “in sè” e “per se” Marxiano per dichiarare che un conto è avere dei bisogni (ed obblighi) un conto è ricondurli ad un quadro analitico di un certo tipo. Come non occorre qui ripercorre le varie, ed opposte, tesi sulla “scomparsa delle classi” o “precariato cognitivo” e quelle di rigida riaffermazione di una stratificazione sociale novecentesca, per capire che se la produzione è cambiata o è stata delocalizzata di certo non è sparita, e continua a delineare categorie sociali e produttive, seppur variate. Ci pare evidente che ambedue i modelli abbiano carenze di adesione alla realtà globale e non particolaristica, oppure al contrario abbiano cessato di essere comunicabili, prese così come sono, nel quadro attuale.

Per noi è anche un problema educativo.

Il nostro intervento parte dalla convinzione che i soggetti del cambiamento debbano essere i proletari, i luoghi da cui debba partire i quartieri.

Tuttavia ci si pone una questione politica dettata dalla relazione diretta con i giovani proletari e sottoproletari del quartiere: cosa determina la loro appartenenza alla classe proletaria?

Si sentono parte di una classe sociale chiamata proletariato?

E soprattutto, esiste ancora questa classe sociale e la relativa coscienza di esistere?

Crediamo sia necessario il riconoscimento e l’autoriconoscimento della classe sociale al fine di portare avanti un discorso rivoluzionario, ciò è nondimeno molto difficile nella società contemporanea, che riesce anche nei quartieri più poveri a imporre modelli individualistici che spingono il prolerariato a ritrovarsi in una lotta al confine con la legalità per raggiungere i modelli capitalisti: soldi,potere.                                                                                                        I nostri ragazzi non si riconoscono nel termine “proletari”. Nessuna sorpresa. Sono categorie utilizzate da pochi nella società odierna, figuriamoci dai sottoproletari dei quartieri.

Crediamo che il “rifiuto”di riconoscersi come una classe sociale sia una forma di autodifesa. Che la tendenza ad uniformarsi con le altre classi sociali, adottando gli stessi status syimbol e gli stessi atteggiamenti, sotto il nome di “normalità”, serva ad anestetizzare il dolore che comporta il riconoscimento di una situazione di subordinazione e sfruttamento.

Si sentono semplicemente “giovani”, disciolti in una macrocategoria senza significato, e qui la vittoria della vulgata dominante è evidente. Quella del “non ci sono più classi”, delle eguali possibilità associate alla meritocrazia, quella di una moderna societa del capitalismo avanzato su modello americano.

Tuttavia, più spesso, abbiamo la sensazione che non stiano “rifiutando” una malfamata etichetta che ben conoscono, nel profondo.

Ma piuttosto che la loro reale collocazione e realistiche possibiità di vita gli sfugga completamente, in una società composta da segmenti (percepiti come) liquidi che gli risulta impossibile ricondurre ad un’immagine unica, ad un nome unico.

Altra causa del non riconoscimento è il “meticciato” che si è creato per gli insistenti flussi migratori, creando una dimensione interculturale che a volte li spinge a conservare il rispetto per le istituzioni, le autorità: le stesse che li vessano e li sfruttano, in nome di una deprimente “integrazione” volontaria. Questo oltre all’importazione di sistemi politico-culturali di tipo repressivo e dirigista che spesso si adattano benissimo a certi modelli nostrani, purtroppo.

Altro importante e più fondamentale contributo a questa difficoltà di “autodefinizione” è dovuto all’ elevato incremento della mobilità sociale in occidente, o almeno nella sua diffusa percezione. Un miraggio di benessere portataci in dono dallo sviluppo economico, una possibilità che resta remota, e comunque legata alla necessità di sfruttare altri individui e altri proletari.

Questo mito contemporaneo comporta però l’indebolimento della solidarietà e della necessità della lotta, portando un’apparente pace sociale che è in realtà soltanto una pentola a pressione che ha trovato il modo per far sfiatare le tensioni e mantenere l’ordine.

Questo meccanismo è incrementato talvolta anche dalla miopia di diversi compagni che non riconoscendo l’analisi marxiana del sistema spesso dimenticano di leggere la realtà sociale tramite delle categorie, che secondo noi ancora esistono. Talvolta il “rumore” di questi ragionamenti giunge persino ad insinuare il dubbio dell’esistenza delle classi sociali all’interno del fronte anticapitalista.

Vogliamo perciò porci questo quesito, esistono ancora le classi sociali?

L’aumento della mobilità sociale, l’ipersviluppo del mercato, interrotto solo saltuariamente da crisi cicliche e momentanee, l’aumento dei diritti civili (quelli borghesi), mostrano all’apparenza una situazione di sostanziale uniformità del tessuto sociale, favorita anche dalla flessibilizzazione del lavoro. Realizzando una frammentazione delle classi, costituendo delle sezioni verticali tra gli ordini di età e non orizzontali in base al reddito e alla classe, aldilà dell’età.

Probabilmente ci sono una serie di fattori che hanno concorso e stanno concorrendo alla rimozione nel senso comune del significato di classe sociale, e soprattutto all’abolizione della classe proletaria, non ultimo l’espropiazione culturale che il capitale è riuscito a portare a termine tra le fila del proletariato mondiale.

Noi vogliamo riaffermare con forza la necessità di riconoscersi come appartenenti ad una classe sociale proletaria, di esprimere mutualismo e solidarietà attiva all’interno di essa. Crediamo che uno degli obbiettivi dell’intervento culturale sia necessariamente la liberazione dell’individuo anche tramite l’autodeterminazione, la costruzione del senso di far parte di una classe subordinata, espropriata e vessata.

Una coscienza non propedeutica ma “autoalimentata” dal riconoscimento dei propri bisogni, personali e collettivi, bisogni da cui la lotta prende origine e a cui un fronte popolare variegato possa trovare risoluzione nelle crepe di un sistema capitalista che ci concede alcuni spazi di azione.

Un’esigenza, la nostra, che si scontra inevitabilmente con la terribile difficoltà di realizzazione. Che però non deve stupire, semmai spingere a ripartire, elaborare nuove parole e approcci, lottare con queste persone e questo livello culturale e politico.

Non abbiamo, ovviamente, una soluzione teorica organica. Non la cerchiamo infatti, se non nell’elaborazione di soggetti in movimento reale, che lottano. Suggeriamo però che si potrebbe ripartire dai rapporti di produzione. Ovvero: salariati e non, di ogni tipo. Ciò non per semplificare, per tagliare con l’accetta le innumerevoli differenze interne alla “categoria”. Differenze che vanno riconosciute e ovviamente “livellate” al rialzo. Ma per ribadire che si, esistono ancora padroni (e padroncini se vogliamo) e lavoratori, e che le “crisi” hanno avuto l’unico risultato di ingrassare ancora di più quell’1 % che si contrappone al 99% (che invece non si contrappone affatto). Questo ragionamento va arricchito dall’analisi della realtà alloggiativa, del numero di persone a carico, della qualità della vita e di istruzione, delle reali possibilità di scegliere un destino diverso da quello che ci si è ritrovati.

Solo così, realizzando di abitare una casa popolare, di avere due genitori lavoratori manuali sfruttati, di essere stati avviati ad un percorso di studi che prevede l’approdo al lavoro nel più breve tempo possibile, i giovani del quartiere possono infine riconoscere di essere proletari.

Il pericolo evidente in questo approccio è quello di un discorso “borghese”: siamo tutti uguali tranne “loro”. Un loro che è stato variamente definito come “casta”, “ricchi”, “politici” ecc ecc.

No, non siamo tutti uguali, e la tensione all’uguaglianza (al rialzo, che no, non vuol dire la magica parola “crescita”) non va mai dimenticata. Chi sta leggermente meglio dev’essere il primo a (pre)occuparsene. Ma ha il merito di riportare categorie politiche alla realtà, alla concretezza di ciò che vive il popolo nella vita di tutti i giorni sulla propria pelle. Un tentativo di discorso di classe aggiornato insomma. Senza il quale si fa demagogia, senza il quale non si incide nel reale.

Checchè se ne dica la categoria Schmittiana “amico/nemico” sta ancora alla base della politica quella vera, e non è rifuggendola che cambieremo qualcosa. Vanno allora, oggi come sempre, individuati i propri nemici, che al solito stanno in alto. Così in alto che spesso non si vedono. Sconfiggendo il razzismo e la lotta fra poveri con uno sforzo collettivo consapevole, che non lasci indietro nessuno, fanti mandati al massacro del fuoco amico di retroguardia “intellettuale”.

E’ solo una proposta, nata dall’esperienza concreta della “sberla” di realtà che danno sempre proletari reali, con bisogni reali. Ma non si può non ripartire da qui per incominciare a ripartire.

Diritto alla casa:

I più volte nominati “bisogni” partono indubitabilmente dai bisogni primari che persino lo stato borghese, in parte costretto da anni di lotta di classe, in parte nella sua veste di controllore sociale, cerca di garantire. Questa garanzia di solito riguarda esclusivamente beni materiali, senza considerare una serie di consegunze sociali e psicologiche di certe scelte politiche.

L’occidente,anche grazie alla vessazione dei cosiddetti paesi del 3° mondo, ha ottenuto e per il momento mantiene la possibilità di nutrire (quasi) tutta la sua popolazione.

Per quanto riguarda invece le abitazioni, il diritto alla casa, il fenomeno è ben diverso.         Il non rispetto di questo diritto svela in modo emblematico come la giustizia sociale sia del tutto estranea a questo ordinamento socio-economico, mostra come gli individui non siano tutti uguali davanti alla legge se appartengono a classi sociali differenti.

La gestione italiana della questione abitativa si è posta spesso su due binari paralleli. Da una parte la costruzione di palazzi popolari il più possibile lontani dal centro dove stipare la “feccia” della città, lasciata priva di servizi adatti, di aree ricerative e cosi via, senza nemmeno includerli in un piano di viabilità che permettesse di raggiungere le altre parti della città. E’ cosi per Zingonia (Bergamo), Quarto oggiaro ( Milano, dove ancora non arriva la metro) e altri quartieri dove grazie alle lotte dei compagni si sono ottenuti almeno una parte di questi diritti negati.

Dall’altra parte le amministrazioni hanno iniziato a delegare a società edilizie e cooperative il problema abitativo, richiedendo la costruzione di percentuali minime di abitazioni a canone convenzionato all’interno di costruzioni destinate al libero mercato, che, nella partita delle spartizioni del territorio servono come contentino contro le pressioni sociali che il comune riceve sulla continua cementificazione.

Non è quindi strano trovarsi nel 2013 nel nord del mondo a dover fronteggiare la questione del diritto alla casa; in questa dinamica emerge in modo dirompente la mancanza di coesione di classe.

La creazione di un gruppo che si occupi di tale problematiche, nato da un nucleo di famiglie e da alcuni militanti ci è sembrata la migliore soluzione. In questo percorso è emerso fin da subito il meccanismo diritto-dovere che si nasconde dietro la questione abitativa.               Le famiglie senza casa, gli individui espropiati dalla possibilità di avere un tetto sopra la testa non riescono a concepire l’abitazione come un loro diritto a cui lo stato deve far fronte. Preoccupante il fatto che gli individui cresciuti in un sistema capitalista siano convinti del teorema per cui ognuno le cose se le deve guadagnare, e arrivano talvolta a giustificare l’abitudine del potere a non sopperire a questa problematica. Che sia in sostanza un loro dovere sbrigarsela da soli.

Le pratiche emerse dai ragionamenti collettivi all’interno del “Movimento Casa e Territorio”vanno in un unica direzione, la riappropiazione di questo diritto, unendo a questa vertenza politica la necessità di far emergere un’altra contraddizione del sistema: l’aggressione al verde pubblico e l’indiscriminato consumo di suolo.
Perciò le soluzioni ponderate prendono in esame esempi di autorecupero urbano, occupazioni di edifici in disuso, pubblici(diverse abitazioni dimenticate dall’aler) e privati( fabbriche che nel processo di delocalizzazione sono state chiuse e abbandonate).
Il percorso è lungo perchè la scelta è quella di costruire un gruppo che si occupi di questo diritto in modo collettivo, considerandolo un’emergenza sociale che trova però dei responsabili politici. Il percorso si prospetta lungo perchè mira a favorire l’autorganizazione dei proletari non una soluzione del problema dall’alto.

L’unico risultato che crediamo utile è una pratica che si sviluppa in due direzioni complementari, l’immediata cessazione dell’emergenza alloggiativa e lo sviluppo di una nuova politica abitativa

CONCLUSIONI:

A nostro avviso il “peccato mortale”, il gigantesco errore di fondo che guasta tutta l’azione dell’eterogeneo movimento anticapitalista è una questione molto semplice da dire, complessa da fare, per questo ancor più dolorosa. Ma non è rimuovendola che risolveremo qualcosa.

Ci pare evidente che la scelta maggioritaria fra i compagni sia stata, sia tuttora quella di “andare verso l’alto”, chiudersi in “think tank” più o meno accademici o di movimento ed influenzare, teorizzare, somministrare in vario modo le ricette del cambiamento verso il basso. E questo senza neanche includere i partiti, esempio lampante di questa attitudine.

La nostra scelta è di vedere nel movimento speculare, dal basso, la strada maestra.

Intendiamoci, il popolo fa schifo: è razzista, egoista, individualista, vota e pensa a destra. Con un’intensità non imputabile interamente al condizionamento del sistema, quanto piuttosto ad un naturale mix fra abitudini e pulsioni umane.                                                   Ma è quello che abita i processi reali, sociali, produttivi, politici e umani. E’ la realtà.

Noi non facciamo eccezione. Questo documento, il modo in cui è stato scritto, lo dimostra.

E difatti non parla al “popolo”, ma ai compagni, cercando di teorizzare e spiegare la nostra scelta, motivandola, invitando a seguirla. Al popolo parlano e parleranno le pratiche concrete che si sarà in grado di costruire assieme ad esso, con le parole adatte al contesto, alle persone.

Solo nel frangente in cui si investono gli individui della responsabilità di occuparsi dei propri bisogni e di risolverli collettivamente, lottando, si riesce a sminuzzare, temporaneamente e localmente, la complessa ragnatela di condizionamento sociale e delega che schiaccia il 99% nella sua attuale situazione. Immota, egoista e cieca.

Questa “diserzione dalla realtà” intellettualoide caratterizza tutti gli ambiti della “sinistra” variamente intesa, compresi gli ambienti libertari e anarchici.

Ed è sempre in agguato, laddove si voglia parlare “a nome di”, “teorizzare per” ecc ecc. Perdendo di vista i soggetti reali, il loro pensiero e protagonismo diretto.

Una sorta di “amministrazione del reale” governista e autoassegnatasi che si fonda sulla separazione fra chi parla (e decide) e chi poi dovrebbe veramente cambiare, se stesso e le cose. Secondo linee direttrici elaborate da altri.

Puntiamo ad un crescendo graduale del mutualismo, della solidarietà, delle pratiche collettive di vita degli spazi e del consumo, che ci permetta di approdare a forma di lotta concrete e durature che mutino almeno parzialmente le condizioni reali di quanti più individui possibili. Forme di resistenza a questa società, da radicarsi nel quartiere, attraverso conquiste modeste ed intermedie, ma non per questo rinunciatarie. Esperienze di vita collettiva, e occupazione o autocostruzione, last minute market e gruppi d’acquisto contro sprechi consumistici e cattiva alimentazione, diffusione delle attività del centro di cultura popolare, realtà associative che provino a dar lavoro, senza sfruttare, ai giovani del quartiere, vessati da abbandono scolastico e necessità materiali non rinviabili. Tutto ci può stare se ricompreso nella giusta ottica : quella del cambiamento rivoluzionario dal basso, della costruzione, di pari passo, di esistenze slegate dal soffocante bisogno materiale affrontato in solitudine e dell’affrancamento politico-culturale.

Nei quartieri, con e per gli ultimi. Che i penultimi non potranno che beneficiarne comunque.

Solo così si può pensare di generare quel fantomatico “cambiamento dal basso” reale, a livello locale, per poi puntare sempre più in alto, verso l’Italia, verso un Europa diversa. Dal basso.

L’altro aspetto, complementare, è quello dei “movimenti” online, della politica “flash-mob” di cui il “movimento 5 stelle” è solo l’ultimo parto in ordine di tempo dopo i vari “no berlusconi day”, il “popolo viola”, “se non ora quando” e la versiona nostrana degli “indignados”.

E’ davvero l’unica rivoluzione che ci possiamo permettere in una società individualistica del capitalismo avanzato? Quella democratica, piccolo borghese, chiusa nella solitudine sicura della tua connessione ad internet o al massimo delle urne?

“Tornare al popolo”, non è vuoto propagandismo o una frase ad effetto.

E’ una necessità, per chi desideri una “sinistra” efficace e fedele a se stessa.

Militanti di quartiere- Membri del collettivo del Centro Territoriale Giovanile, Centro di Cultura Popolare.

Quartiere S.Eusebio, Cinisello Balsamo

(Il documento non rappresenta l’opionione del collettivo del centro di cultura popolare, quanto una libera elaborazione di alcuni suoi militanti)

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