UN DOCUMENTO POLITICO, TEORIA E PRATICA- Parte 2

5 torri santeORGANIZZAZIONE: Lotte e autorganizzazione popolare

Vale la pena qui riprendere anche la polemica sull’organizzazione. Crediamo che sia una contraddizione in termini evocare, praticare un cambiamento che si vuole generale o almeno generalizzabile ed escludere ogni ipotesi di organizzazione. Chi si riconosce nelle classi subalterne, e si dota di un programma, di una piattaforma, di qualsivoglia struttura organica di idee, necessita organizzazione. Non solo per implementare tale “piattaforma”, ma soprattutto perchè è l’unica chance in suo possesso per modificare a suo favore i rapporti di produzione e le condizioni di vita impostegli.

Non intendiamo qui avventurarci nella scivolosa discussione sul partito, la sua essenza e la sua funzione. Ma crediamo che ci sia anzitutto un problema lessicale, almeno dentro i nostri ambienti, sul quale basti intendersi.

Partito significa “parte”, della società. E questa parte, quella in fondo, s’intende, noi non vogliamo candidarci a rappresentarla, ne siamo pienamente parte.

Ci preme solo ricordare che l’attuale concezione del partito, tutta ripiegata su una visione elettoralistica della società e della partecipazione popolare, è sintomo ulteriore di quanto sia venuta meno la capacità autonoma di teorizzazione degli ambienti rivoluzionari, di più: è sintomo della mancata conoscenza della propria storia. Proprio Malatesta e gli anarchici di inizio secolo scorso parlavano di “partito rivoluzionario” in contrapposizione al “partito rappresentativo”. Lotta Continua parlava, almeno inizialmente, di partito come di qualcosa di completamente estraneo alla “lotta” elettorale, piuttosto lo ricomprendeva nel discorso sulle “avanguardie interne” al proletariato, definendolo come un unione, un coordinamento di queste. Non si tratta di amore per le precisazioni, quanto piuttosto della consapevolezza che sono le parole, e il loro significato autentico,non viziato dal’uso dominante, a definire la nostra pratica militante. E ci spendiamo per un loro corretto uso, rintracciando nel sempre crescente timore di utilizzare tutti quei termini che rimandino al concetto di “organizzazione” come un ulteriore vittoria della vulgata borghese sull’autonomia concettuale delle classi subalterne, lasciata sprovvista persino di un vocabolario di base in cui riconoscersi.

Detto questo, il nostro sforzo non è in nessun modo volto alla costruzione del “partito rivoluzionario” o altre simili concezioni. Non intendiamo però sottrarci al confronto su questo nodo cruciale e rivendichiamo una concezione di organizzazione ( di partito, se si vuole) “libertaria”, come coordinamento funzionale fra varie realtà in lotta, su diversi fronti di lotta, individuando nel settarismo e nello spontaneismo il pericolo, opposto e altrettanto pericoloso, che sta dietro l’angolo di una concezione rigidamente “anti organizzativa”. Pensiamo ad un “partito rivoluzionario” informale e fluido, composto da tutte quelle realtà, organizzate o semi-organizzate, che condividono pratiche di lotta anticapitalista e per il diretto protagonismo popolare, spingendoci fino ad auspicare un processo “federativo” non burocratizzato per quante si trovino, per affinità e obiettivi, ad avvertirla come esigenza o come avanzamento nell’efficacia della lotta verso la disarticolazione del sistema.

In quest’ottica il problema dell’organizzazione, pur mantenendo tutte le sue possibili implicazioni negative, si risolve in fretta. Concepiamo qualsiasi struttura, strumento e parola d’ordine in chiave essenzialmente strumentale. Una volta chiarita una teoria e una pratica anticapitalista, per una disarticolazione sociale ed economica che consegni sempre più potere diffuso nelle mani dei diretti protagonisti dei processi produttivi e abolisca il principio di rappresentanza, qualsiasi strumento, concreto o concettuale, può venire impiegato all’occorrenza, ed eliminato il minuto dopo che cessi di essere funzionale. Così la pensiamo sul ruolo e concezione delle “avanguardie”. Una volta affermato (e praticato giorno per giorno) che non solo non è concepibile nessuna avanguardia esterna al “soggetto sociale di riferimento” ma che è di gran lunga preferibile che ogni militante intervenga nella sfera diretta di appartenenza (luoghi di lavoro, quartieri, università…) preoccupandosi di non chiudersi verso l’esterno, la prassi non può che avvalorare un discorso di “avanguardie interne”. Lotta Continua diceva “Non dobbiamo essere alla testa del popolo ma la testa del popolo “. Gli anarchici che occorre mettersi al suo servizio e non plagiarlo, dogmaticamente, dall’esterno. Noi intendiamo entrambe queste concezioni in ottica libertaria ed empirica: va rifiutata, combattuta, ogni avanguardia che sia esterna ai protagonisti della lotta. Al tempio stesso bisogna riconoscere che in ogni singolo caso di conflittualità organizzata vi sono infinite differenze fra i settori più “maturi” e il restante. Che giorno per giorno questa avanguardia sia capace di non scollarsi (non burocratizzarsi) dalla situazione in cui nasce e lotta, e di trascinarsi dietro sempre più adesioni con l’esempio e non con le pratiche di egemonia è la nostra scommessa, e il nostro “programma”.

Prassi-teoria-prassi”

Tantopiù che adottiamo come unica modalità di lotta adeguata il “Prassi-teoria-prassi” e l’elaborazione di un quadro analitico solo a partire dall’esperienza concreta, sul campo.

Ciò significa, ancora una volta, agire in nome e per conto di un’idea precisa di società, cioè autogestita ed egualitaria, che però non si tramuti in un dogma, per sua stessa definizione “esterno” al movimento reale. Come ci hanno stancato le analisi salottiere, sostanzialmente dominio di apparati culturali ed intellettuali, financo artistici, slegati dal destinatario della loro elaborazione, al tempo stesso ci rendiamo conto della tragedia rappresentata dalla crescente incapacità di analisi e teorizzazione di lotte orientate unicamente al “pratico”.

Il nostro “prassi-teoria-prassi” ha come obiettivo un intervento concreto, capace di mutare efficacemente, seppur parzialmente, i rapporti di forza nella situazione concreta. Da questa esperienza trae spunti di analisi, verificati e non pregiudiziali, che concorrono a formare un discorso in parte generalizzabile; comunque utile a rivedere e migliorare l’intervento stesso.

A tal proposito citiamo come riferimento l’elaborazione dell’associazione, federata a livello nazionale, Brigate di Solidarietà Attiva, che, mettendo al centro processi di autorganizzazione popolare nei terremoti, nelle alluvioni, fra i braccianti agricoli, fra i facchini delle cooperative di logistica, nei quartieri, adotta essenzialmente un processo “prassi-teoria-prassi” non slegato dal praticabile, in ciascuna lotta e nell’immediato. E questo senza considerare le “vittorie parziali” come risolutive, ma percependole in quadro teorico di lotta continua ed erosione costante delle condizioni, mutevoli, di sottomissione e sfruttamento dei soggetti in causa.

Lotta di classe e “dire la verità fra le nostre quattro mura”

Alla stessa maniera intendiamo “l’intervento culturale” praticato nel quartiere “S.Eusebio” attraverso il “Centro di cultura popolare” e le lotte per il diritto alla casa.

Ammonendo, e ricordando a noi stessi, che non si deve trattare di interventi a sé, slegati dalla direzione generale del pensiero e dell’azione. Se così fosse si tratterebbe infatti di fare sostanzialmente mero “assistenzialismo” caritatevole, non dissimile da quello borghese o religioso.

Di più, avrebbe forti elementi di conservazione dello sfruttamento esistente.

Un approccio che faccia dei “bisogni” del soggetto sociale di riferimento il centro della propria azione, ma non in senso ne “sociale” ne strumentale. Ci spieghiamo meglio: dato il nostro rifiuto a considerare “sociale” e “politico” come terreni separati, intendiamo quell’intervento a favore di quei bisogni immediatamente abile a far scaturire una riflessione politica sulla natura dello stesso, dei bisogni, del perchè ci sono e come sopperirvi. In una dimensione collettiva, egualitaria, conflittuale, politica. Questo elimina il rischio di finire per spendersi un una mera azione reiterata, che diventa il fine stesso dell’intervento politico.

D’altra parte rifuggiamo anche un uso “strumentale” del bisogno, che lo utilizzi per appiccicarvi dogmi o idealizzazioni astratte, scollegate dalle condizioni concrete, dal soggetto sociale e dalle modalità di lotta ad esso più “naturali”.

In ultima analisi concepiamo il lavoro apparentemente “conservativo”di natura culturale, di modesta organizzazione, come base imprescindibile alla nascita di rivendicazioni politiche solide e mature, non imposte dall’esterno ma autodirette.

Ciò che per noi costituisce il discrimine fondamentale in tutto ciò che si fa, è il suo carattere, o meno, di classe (sul concetto torneremo più avanti). L’intervento culturale non ha senso, o meglio, ha un altro senso, per tutt’altra classe, se non è a fianco della classe subalterna.

Lavorando alla più alta autonomia della classe sociale, nel tentativo di elevarsi e farlo riconoscendosi in essa, non come percorso che sottintenda un approdo ad una classe “superiore”.

Nel dare vita a piccoli interventi, la proliferazione dei quali è l’unica possibilità per un cambiamento autentico e totale, dobbiamo però stare attenti. A non confondere il piccolo gruppo umano che ne è oggetto (soggetto) come l’unico destinatario, a non perdere la capacità di intenderlo come segmento, magari fra i più marginali, di un’immensa classe subalterna. Altrimenti si, facciamo assistenzialismo, si, facciamo solidarietà umana fine a se stessa. Per questo, non negando i legami umani che fortunatamente si instaurano, compiamo una scelta essenzialmente politica, di classe, quando scegliamo il campo in cui intervenire.

Aggiungiamo solo che l’orgogliosa “purezza” di quei percorsi, pur formidabili, che traggono forza dal loro isolamento, ma al contempo scelgono il settarismo, a nostro avviso è la maschera che nasconde la perdita di molto del loro carattere “rivoluzionario”.

L’incapacità di comunicarsi, l’indisponibilità a spronare altri a seguire l’esempio, a mettersi in connessione con altre lotte, affini o non, conducono direttamente alla trappola di “dire la verità” unicamente entro le nostre quattro mura, piegando l’emancipazione generale a quella individuale.

Al lavaggio giornaliero di coscienza.

Non si può affermare la tesi- un cambiamento generalizzato nella società- e negare le necessarie conseguenze- comunicare la lotta, renderla esemplare, compiere tutti i passi necessari a farne qualcosa di generalizzabile.

Militanti di quartiere- Membri del collettivo del Centro Territoriale Giovanile, Centro di Cultura Popolare.

Quartiere S.Eusebio, Cinisello Balsamo

(Il documento non rappresenta l’opionione del collettivo del centro di cultura popolare, quanto una libera elaborazione di alcuni suoi militanti)

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